L’autotrasporto merci italiano continua a veder deteriorare i margini di guadagno, ridursi la propria quota di mercato a livello continentale e nei prossimi anni le aspettative sono preoccupanti in primis per la mancanza di personale specializzato. Al punto che, secondo un rapporto appena pubblicato dal gruppo Contship Italia che si occupa di logistica e terminalismo portuale, «i clienti che rischiano di subire le peggiori conseguenze di questo disallineamento tra domanda e offerta di servizi di trasporto sono le grandi catene di distribuzione, ma anche i grandi produttori di beni di consumo (tessili, abbigliamento, mobili e apparecchiature elettroniche) che oggi sovente utilizzano esclusivamente la modalità stradale per distribuire le proprie merci». Una delle possibili soluzioni è rappresentata dall’intermodalità ferroviaria che in Italia però ha necessità di essere in qualche maniera incentivata.
Questa analisi intitolata “L’autotrasporto italiano tra crisi congiunturale, competizione internazionale e nuovi modelli di business” afferma quanto segue: «Appare chiaro come la sostenibilità del modello di business tradizionale del trasporto stradale su lunga distanza sia minacciata su più fronti. I margini di manovra si fanno sempre più stretti, e molte delle classiche strategie di contenimento dei costi (compressione dei salari e utilizzo di manodopera a basso costo, dumping sociale, allungamento del ciclo di vita dei mezzi) non sono più praticabili, anche alla luce di nuove, stringenti regolamentazioni, e di una generale evoluzione della sensibilità in materia».
I numeri dicono che in Europa tre quarti del trasporto merci terrestre viaggia su strada (76,4%) e meno di un quinto (17,4%) su ferrovia; la quota restante (6,2%) si muove attraverso vie d’acqua interne. In Italia, quest’ultima modalità non è utilizzata, e lo split modale è ancor più sbilanciato a favore del trasporto stradale: 85,5% contro 14,5%.
I dati Istat dicono che nel 2016 il trasporto italiano ha movimentato su scala nazionale 881.330 migliaia di tonnellate di merce, totalizzando oltre 100.200 milioni di tonnellate-kilometro, con una distanza media percorsa per ogni viaggio pari a 114 km. Per quanto riguarda le attività di trasporto internazionale, effettuate da aziende italiane, si parla invece di 20.170 migliaia di tonnellate movimentate e 12.355 milioni di tonnellate-kilometro, con una distanza media percorsa per ogni viaggio che supera i 600 km. La maggioranza delle merci attraversa le Alpi da e verso l’Austria (126,5 milioni di tonnellate, pari al 60% del totale). Francia e Svizzera registrano una quota inferiore (42,4 e 40,5 milioni di tonnellate, corrispondenti al 20% e al 19% del totale).
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In questo contesto competitivo, l’Italia continua a soffrire di un costante aumento dei costi e di una progressiva riduzione della competitività: il costo per kilometro del trasporto pesante italiano (escludendo i costi strutturali) resta uno dei più alti in Europa. Gli operatori italiani hanno registrato tra il 2008 e il 2016 un calo del volume d’affari del 5% a livello nazionale, e del 10% a livello internazionale. Da notare che il 90% circa dell’attività di trasporto pesante dei trasportatori italiani ha luogo all’interno dei confini nazionali, e solo il 10% riguarda traffici internazionali.
Si sta assistendo a una progressiva marginalizzazione dei vettori nazionali per le direttrici internazionali da e per l’Italia e a un incremento dei fenomeni del cabotaggio sul territorio nazionale da parte dei vettori esteri. Le statistiche Eurostat di settore in particolare rimarcano come la quota di mercato, espressa in tonnellate*km, dei vettori italiani sulle direttrici intra-UE da e per l’Italia sia in calo da diversi anni, per raggiungere nel 2017 il punto di minimo di solo il 10%.
Una delle criticità attuali e future più preoccupanti per il comparto è, come noto, la carenza di autisti qualificati in Italia e in Europa. Nel nostro paese le stime delle associazioni di settore parlano di almeno 15.000 autisti mancanti.
L’analisi sottolinea che «l’utilizzo dell’intermodalità può rappresentare un’alternativa, ma occorre guardare ai dati con realismo: la capacità del sistema ferroviario di assorbire nuovi volumi non è illimitata, e considerando il forte sbilanciamento dello split modale tra strada e ferrovia è facile intuire come sia impensabile trasferire direttamente una quota consistente dei traffici stradali su rotaia, senza massicci investimenti infrastrutturali, che richiedono ingenti risorse, tempi lunghi e consenso politico e sociale, per essere realizzati».
A proposito infine degli ostacoli a un maggiore sviluppo dell’intermodalità, secondo Contship Italia uno dei maggiori citato dai trasportatori è l’investimento economico richiesto per dotarsi di equipaggiamento dedicato (rimorchi portacontainer o semirimorchi dedicati).
Il costo di un semirimorchio intermodale è infatti di circa il 30% più alto rispetto a un semitrailer puro stradale. A questo extra-costo bisogna poi aggiungere maggiori costi di manutenzione.
Non a caso nelle conclusioni dello studio si legge: «Alla politica spetta il compito di stimolare un dibattito serio e fattuale, sulla necessità di perseguire un sostanziale sviluppo infrastrutturale; parallelamente, occorre introdurre i giusti incentivi per orientare gli investimenti verso le modalità di trasporto più sostenibili, rendendo sempre più competitive le soluzioni che riducono la congestione stradale, l’inquinamento e le esternalità negative legate all’abuso della modalità stradale».
Il riferimento è ad esempio «alle agevolazioni dedicate in maniera specifica all’acquisto di mezzi dedicati all’intermodalità, l’estensione delle fasce orarie di circolazione anche ai weekend per i mezzi in transito da e verso i terminal intermodali e la semplificazione nella gestione documentale delle unità di carico che comportano un superamento delle 44 tonnellate su strada, attualmente assimilate in tutto e per tutto ai trasporti eccezionali, per i quali sono necessari permessi speciali, scorte dedicate e notifiche del percorso del carico».